lunedì 6 gennaio 2014

                              Biancaneve





Sentì la voce di sua madre dire al contadino che tagliava l’erba:
“Bianca come la neve, rossa come il sangue”.
Nina si svegliò. Aveva ancora gli occhiali sopra il naso e il libro aperto sul petto.
Si affacciò al giardino. Nessuno tagliava l’erba e sua madre da due anni riposava in Paradiso.
Gliela aveva letta infinite volte quella fiaba, tra una soffiata di naso e un colpo di tosse.
Nina uscì in giardino. Si avvicinò al roseto e mentre tagliava la rosa sorrise. Nessuna puntura al dito, nessuna goccia di sangue. Mise  la rosa nell’acqua e accese la radio. Edith Piaf cantava una canzone triste. Ma lei quel giorno non si sentiva triste. Con tutti quei gatti che giravano intorno. E i suoi due cani!
Alle quattro decise di salire al piano di sopra dalla sua amica Clara.
Avevano comprato insieme quel rustico, negli anni ottanta quando erano due giovani coppie.
Nina e suo marito il piano di sotto, Clara e Franco il piano di sopra e dopo trent’anni era diventato il luogo perfetto per trascorrere il tempo che la pensione elargiva.
- Ha tagliato l’erba il contadino nel primo pomeriggio? - chiese Nina
­- No, ha seminato nell'orto con Franco - rispose Clara.
- Durante la pennichella ho sognato mia madre che diceva, e sentivo anche il rumore del tosaerba, bianca come la neve , rossa come il sangue. Cosa vorrà dire?-
- Sei tu che hai letto Freud?-
- Difficile interpretare i propri sogni, entrano in gioco la censura e i meccanismi di rimozione -
- Secondo me centra l’infanzia - disse Clara
- Forse hai ragione. Il primo ricordo che ho dell’infanzia è la mia mamma che mi legge la fiaba di Biancaneve. Ero malata, avevo l’influenza. La sera la sapevo a memoria tante erano le volte che l’avevo costretta a leggere. Quando andavamo a trovare i nonni mi diceva:- “fai sentire come sei brava” e io dopo un po’ di insistenze cominciavo come un pappagallino ammaestrato:“C’era una volta una regina che aspettava un bambino.  Cuciva alla finestra e guardava i fiocchi di neve cadere. Si punse un dito con l’ago. Tre gocce di sangue caddero sul davanzale bianco di neve.
“ Ah, disse, come vorrei avere una bimba con la pelle bianca come la neve e la bocca rossa come il sangue..." recitò Nina.
- Sicura che dice bocca rossa? – chiese Clara
- Forse gote rosse. Non ricordo più, sono passati più di sessant'anni.-  Il bollitore   fischiò. 
Le due amiche con lo scialle sulle spalle  si godevano il sole  in terrazza. A est si ergeva la rocca di Perti. Davanti a casa gli alberi erano carichi di ciliege. Gli uomini chini nell’orto.
A Nina venne un po’ di nostalgia quando vide il marito di Clara sollevare la schiena, asciugarsi la fronte col braccio e sventolare il cappello verso di loro. Si sentì vittima di un destino avverso.
Trangugiò l'invidia nel the e si scottò la lingua.
- Bianca come la neve e rosso come il sangue. A me viene in mente un omicidio.  La purezza e il peccato. E a te? - chiese Clara appoggiando la tazza sul tavolino prima di accendersi la sigaretta.
- A me viene in mente …- Nina si fermò. No, non poteva descrivere l’immagine che era apparsa nella sua mente. - Non mi viene niente – si limitò a dire.
- Devi fare delle associazioni vedrai che il significato lo trovi. –
- Speriamo non sia un sogno che predice sventure –
- Sei la solita pessimista - disse Clara
- Facile rispondere così. Tu hai ancora un marito e dei figli. Da quando sono sola, io il futuro lo temo”.
Mentre la conversazione stava per sdrucciolare come il piede su una buccia di banana, Franco e il contadino salirono in terrazza.
- Volete una tazza di the? - chiese Clara.
- Il the è per le donne – se ne andò in cantina e tornò con una bottiglia di vino.
- Quest’estate mangerete degli ottimi pomodori abbiamo seminato il cuore di bue - disse Andrea il contadino.
“E allora mangeremo pomodori rossi fritti” disse Nina, le piaceva sfoderare la sua cinefilia. Ma di nuovo impertinente quell’immagine affiorò . Nina si portò una mano al petto e rialzò lo scialle  alla gola .
- Qualcosa non va? - chiese Clara
- Niente - rispose Nina col cuore che  palpitava forte.
“Se dico: bianca come la neve, rossa come il sangue, qual’ è la prima cosa che vi viene in mente? - chiese Clara rivolta  agli uomini.
- Sangue e arena? - rispose Franco.
- E’ il titolo di un film con Rita Hayworth e Tyron Power che fa il torero, l’ho visto tanto tempo fa.- aggiunse Nina.
- A me viene in mente una colomba colpita al cuore da un fucile- disse il contadino.
- I soliti uomini – concluse Clara sistemando le tazze sul vassoio.
Il sole calò veloce dietro la rocca. Nina tornò a casa e accese la stufa.  
 L’immagine le si presentò di nuovo mentre preparava la zuppa per Tom e Jerry, la quarta generazione di una serie di bastardini. La sua  famiglia, figli non ne erano arrivati.
Dopo cena i cani fecero la solita perlustrazione nel bosco sotto casa. Nina li accompagnò fino alla fine del prato e si fermò sotto al grande pino marittimo . Quando li chiamò tornarono di corsa e andarono ad accucciarsi sotto il portico.
Era ormai tardi quando Nina spense la televisione e uscì a guardare il cielo.
- Domani sarà una bella giornata - disse ai cani prima di chiudere a chiave la porta di casa. Faceva sempre così prima di andare a dormire. Guardava il cielo e se era sereno cercava di riconoscere le costellazioni.  Quando era giovane fumava anche l’ultima sigaretta. Il ciuccio della buona notte, diceva a suo marito quando rientrava.
Infreddolita si infilò il pigiama di flanella, se ne andò sotto il piumone ma prima di riprendere il libro ripassò in rassegna gli avvenimenti della giornata.
Ed eccolo lì il rimorso esploderle nel  petto come un petardo.
Signore fa che non sia incinta. Quante volte aveva pregato così mentre controllava le mutande.
Era stata ascoltata.


Questo racconto partecipa all'EDS de La donna camèl Rosso come il peccato
Altri partecipanti:
Gordon Comstock

sabato 28 dicembre 2013









                                                                          Milano 
 Dalle parti dei Navigli, nel vaso di una casa di ringhiera, a  volte la natura per Natale  fa di questi   regali. 

venerdì 20 dicembre 2013




       In un giorno d'inverno dal sedicesimo piano della Rizzoli, Milano può diventare una cartolina .
                                           Buon Natale

martedì 10 dicembre 2013

Il quadro capovolto - Seconda parte



Bob Rattazzo parcheggiò sul piazzale di Niguarda. L’ edificio dell’ospedale sotto il sole d’agosto pareva un quadro di De Chirico. Seguendo le indicazioni s’inoltrò in un  corridoio deserto  rischiarato da una luce verdognola. Calcinacci e macerie a  terra, muri scrostati, tubi di gomma grigi per l’accumulo  di polvere, plastica opaca a riparare gli spifferi dei vetri rotti, carrozzine per invalidi senza ruote, grossi sacchi di plastica nera pieni di chissà cosa. Sospettò di camminare  in un film  di Lars von Trier.
La sirena di un’ambulanza fischiava  mentre Bob finalmente pigiava il tasto dell’ascensore. Salì al secondo piano e si fermò alla  stanza numero 11, indossò un sorriso e fece capolino.
Eccolo  il mio amico Denis, come un extraterrestre durante un esperimento sulla terra, pensò Bob quando lo vide. Era steso nel letto, un tubo grigio  scendeva da una  sacca lattiginosa e spariva sotto le coperte, la maschera dell’ossigeno gli schiacciava il volto.
“Phantomas, ancora a letto?”
Denis girò gli occhi  verso la finestra. Il sole filtrava dalle tende gialle e un triangolo di luce cadeva sulla coperta.
Bob calò la tapparella a metà: “Così va meglio, vero?”
 “Sì” fece con lo sguardo.
Arrivò un infermiere e gli tolse la maschera dell’ossigeno.
La malattia che gli aveva colpito i muscoli, distendeva i lineamenti e Denis sembrava ringiovanito
“Non sforzarti a parlare.”
“Sei riuscito   a  trovare  il quadro?” chiese Denis con un sussurro.
“ Forse. Ti ricordi  Prevost, quel gallerista rampante?  Era compagno di scuola del figlio dell’avvocato Gelmoni. Johnny Ricci ha lavorato per  lui. Vedrai quando esci di qui  avrò rintracciato il quadro e andremo insieme a controllare se è capovolto.
“Balle ” rispose.

Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare. Alzò lo sguardo dalle bozze che stava correggendo e incrociò gli occhi di sua moglie sulla soglia: “Mi stavi spiando?” Bob le sorrise e sollevò la cornetta.
“Chi era?” domandò lei.
“Gianni Prevost, ci dobbiamo vedere.”
In galleria esponeva un artista coreano ma Bob  trovò interessante solo la presentazione della mostra.
“Scusa il ritardo” disse Prevost quando arrivò. Scoppiava nei vestiti e aveva i capelli stretti in un codino.
“Onorato della visita” aggiunse e ossequioso  lo fece accomodare nel suo studio.
“So che sei stato compagno di scuola del figlio del collezionista  Gelmoni, vorrei rintracciarlo.”
“Perché?”
“Il padre aveva dei quadri di Denis Lazzaro che vorrei recuperare.”
“Come mai?”
“E’ una storia lunga  che comincia nel 76.  Quello fu un brutto periodo per Denis, era un po’ alterato quando firmò il quadro. Sosteneva che si poteva guardare dal lato che  piaceva a chi lo possedeva. Ma quando l’ha visto sulla parete  della sala riunioni dell’avvocato,l’arancione a sinistra, ha deciso che quella era la visione corretta dell’opera e negli anni è diventata una fissazione. Ogni tanto andava a trovarlo, così controllava. Mi ha lasciato in eredità la sua ossessione. Mi piacerebbe ricomprarlo. Puoi mettermi in contatto con gli eredi?”
 “Vedrò cosa posso fare” rispose Prevost e  gli allungò una cartelletta blu che era sul tavolo.
“ E’ un progetto su Picasso. Con la tua consulenza si può puntare a Palazzo Reale”.
 “E’ un progetto molto ambizioso sarà difficile recuperare molte opere.”
“Ma per te non sarà un problema, sei nel giro da quarant’anni”.
“Devo pensarci, ti farò sapere” e lo salutò.


Bob camminava verso il  Giamaica e ricordò quel giorno del ‘75, le mani dei socialisti già allungate su Brera, quando chiamò l’ambulanza e Denis se la cavò.
Ma sono lontani i tempi in cui la sera nel quartiere, su un banchetto improvvisato all’angolo della strada, potevi comprare un quadro o il disegno di un promettente artista. Ora la notte cala sui tavolini delle chiromanti.
“Che ciccione presuntuoso, affiancare te e  Spazio ’70 al suo mostrificio, suona come un ricatto” esclamò Johnny davanti a un Negroni.
“Recupero il quadro, poi si vedrà.”
Qualche giorno dopo verso le quattro Bob riscendeva  i gradini della galleria Prevost.
C’era solo Anna che  in un angolo, dipingeva. Barattava quello spazio di lavoro  sbrigando commissioni di segreteria e  garantiva una presenza quando Gianni non c’era.
Bob si avvicinò ad osservare il lavoro di Anna; sembrava  in trance e lui si mise seduto ad aspettare.
 “Vedi com’è cambiato tutto” disse improvvisamente emergendo dalla tela .
 “ Bastavano tre pennellate lì, in basso”.  L’emozione di lei era  così intensa che si trasformò in pianto.
Anche Bob provò una forte emozione  per quelle le lacrime.
Bob era ancora commosso quando Prevost arrivò. Era in ritardo come al solito e sembrava  un pinguino nell’abito nero e la camicia bianca.
“Ha la lacrima facile quella” rispose e agguantò la cartelletta blu che Rattazzo aveva appoggiato sulla scrivania e mentre leggeva  il suo corpo si allargava debordando dalla poltrona.
 “Molto interessante, vedrai  l’assessore scucirà i soldi  e Palazzo Reale. Il tuo nome è una garanzia.”
“Hai rintracciato il rampollo Gelmoni?”
“ I quadri di Denis Lazzaro  non sono ancora stati venduti l’ho saputo dalla figlia. Pare siano nella casa di Calice Ligure e quella casa l’ha ereditata il fratello."
 “Quando possiamo andare?”
 “Ehi, calma, il   ragazzo è in viaggio.”  Rispose frenando l’entusiasmo di Bob.


Era aprile, piovigginava. Sotto l’impermeabile di Johnny si intravedeva  la Leica. Bob chiuse l’ombrello quando vide arrivare la macchina di Prevost che scese e si tolse la giacca. Saltò un bottone dalla  sua camicia,  rotolò sul marciapiede.
“Mangi troppi dolci" gli disse Johnny accomodandosi sul sedile davanti.
“Ancora a pellicola vai? Nell’era di internet e della banda Larga? Cosa aspetti a passare al digitale!”
“ La banda siete tu e l’assessore. Tu non sai rinunciare ai dolci, io non so rinunciare all’odore della pellicola, della camera oscura e  delle donne.”
Bob seduto sul sedile posteriore non rise. Da trent’anni non vedeva  più quel quadro e si sentiva come chi va incontro a un vecchio amico perso dopo  tanto tempo e teme di trovarlo malconcio.
“Denis era un grande, ma che caratteraccio. L’ho incontrato una volta e mi ha mandato subito a quel paese. Come facevi a sopportarlo, Bob?” domandò Prevost.
“Semplice. Gli voleva bene.” Rispose Johnny al suo fianco.
“Che invidia mi fate, voi che avete vissuto gli anni sessanta. Io devo accontentarmi dei racconti.”
“Ehi Bob, gliela raccontiamo quella dei cioccolatini?”
“Lascia stare!” rispose irritato.
Johnny lo osservò  dallo specchietto:  la  barba grigia e della  chioma solo pochi ricci rimasti a incoronare il collo. Ma l’energia, che conquistò il sindaco di Milano, insieme allo sguardo schietto erano rimasti gli stessi.
Arrivati a Calice Ligure, Prevost telefonò e dieci minuti dopo nella piazzetta del paese si presentò Luca Gelmoni,  alto e abbronzato. L’espressione della bocca e il profilo ricordarono a Bob il  padre.
Si accodarono alla sua macchina e iniziarono a salire una strada con molti tornanti. La casa gialla sbucò improvvisa dietro una curva.
 “E’ disabitata da tanto, passa solo il contadino a dar da mangiare ai gatti.” Disse Gelmoni trafficando con le chiavi.
Tutti entrarono. Bob invece si mise seduto  sui gradini dell’ingresso. Un gatto nero gli si avvicinò.
Johnny tornò dopo un po' e gli allungò la mano. "Cosa fai lì seduto, dai entra.”
Bob buttò la sigaretta schiacciandola  col piede. Pensò alle Marlboro di Denis, si sollevò da terra e varcò la soglia.
Il padrone di casa aveva disposto sul tavolo un po’ di focaccia e due bottiglie di vino. Stava  accendendo il camino  quando dalla finestra della cucina entrò il gatto.
I quadri erano  in soggiorno coperti da un lenzuolo, Prevost lo tolse  e cinque tele vennero allineate in soggiorno.
“Qual è il quadro che cercava ?” chiese il padrone di casa.
“Non c’è”.
“Come non c’è, sono tutti i  Lazzaro che erano nello studio di papà”.
“Era appeso nella sala riunioni e qui non c’è.”
“Nella sala riunioni c’era una natura morta che ha preso mia sorella”.
Johnny e Bob si lasciarono  cadere sul divano.
Il gatto  passò, strusciandosi ai loro piedi.
“Ci sono altri quadri in casa, mio padre li aveva trasferiti qui negli ultimi tempi. Faccia un giro al piano di sopra.”
Bob salì le scale. Sbucò in un corridoio  illuminato da  una parete di vetro che si apriva  sullo  studio con vista alla rocca di Perti. In fondo sulla parete stretta, una  piccola tavola di legno massello era attraversata da due sottili linee, arancione e blu cobalto, che sottolineavano le venature. Si soffermò a leggere la firma: Fiannacca, 1977. Sulla parete lunga  era appeso  uno splendido Scanavino dai toni grigi  al cui fianco cantava   un gigantesco gallo, dipinto su linoleum opera di  Aldo Mondino. Due Crippa con cerchi rossi e gialli su sfondo blu, risaltavano tra i  tanti libri.
Il corridoio continuava con una svolta sul lato  nord della casa e finiva con una porta. Una porta di noce  con appesa  una targa  di smalto bianco. Buon riposo, c’era scritto. L’aprì. Sentì il gatto scivolargli tra le gambe, poi un tonfo leggero. La camera era buia. Solo un taglio di luce dalla persiana rotta.
Spalancò la finestra. Il gatto nero era sul letto e lo guardava.
 “Clic” fece la Leica di Johnny alle sue spalle.
Bob si voltò e vide il quadro.



Questo mezzo racconto partecipa all'EDS colori (la prima parte è qui)
Ci sono anche

Per favore non chiamarmi Barbie
Zebre e savane
Placida come il fiume
Madeleine
Natale con soffritto
Pedalata nera




mercoledì 13 novembre 2013

Il quadro capovolto



Quando verso sera al bar Giamaica di bicchieri se ne erano consumati tanti e le discussioni sulla pop art evaporate, l’argomento del gruppo scivolava sulle modelle del corso di nudo.
Roberto Rattazzo, rosso di capelli, era timido con le ragazze.
“Bob, cosa ci vuole?” gli diceva Denis “Guarda la tipa vestita di nero col rossetto bordò. Fatti sotto, le offri un caffè e le chiedi se puoi accompagnarla a casa”.
Bob rispose alzando le spalle.
Il giorno dopo la tipa era appoggiata al bancone e lo guardava.
“Posso offrire un caffè?”
La brunetta sorrise e rispose, perché no!
“Dove abiti? Ma è qui vicino, ti posso accompagnare?”
Lungo la strada Bob si fermò in pasticceria e comprò una scatola di cioccolatini.
In corso Garibaldi di fianco al cinema Fossati chiese:
“Posso salire ad assaggiare un cioccolatino?”
Due giorni dopo Bob entrò al Giamaica esultante.
Cominciò dal foulard sull’abat-jour, continuò col profumo di violetta nella stanza e la bottiglia col pon pon sul comodino, finì col catino di ceramica e il cesso sul ballatoio.
“E il soffitto della stanza era viola?” domandò Johnny Ricci, il fotografo.
“Lascialo in pace” borbottò Denis.
“E’ stata dolcissima” concluse Bob. Dal gruppo partì una gran risata. “…e dolcissimi anche i cioccolatini, li abbiamo finiti tutti noi ieri sera”.
“Stronzi!” urlò.
“Invece di ringraziarmi che ti ho pagato la prima scopata” disse Denis.
Dopo qualche giorno di vaffanculo, l’episodio cementò una lunga e tortuosa amicizia.


Denis era il migliore del gruppo, il più aggiornato, il più veloce col cervello, grande sperimentatore da quando era tornato da New York. Questo pensava Bob.
A sei anni disegnava sugli scatoloni che i suoi genitori tenevano nel retrobottega. A otto, la sua prima opera : una bottiglia di latte con la goccia che scivolava lungo il bordo. Nonostante la scritta Yomo che appariva in trasparenza, suo padre lo aveva incorniciato e appeso in latteria alle spalle della bilancia.
Il padre di Bob invece faceva l’antiquario. Aveva un negozio in via Caminadella e collezionava arte contemporanea. Aveva fiuto e teneva d’occhio il gruppetto di amici di suo figlio.
Terminata l’accademia e messa da parte la scultura, Bob affiancò suo padre nel lavoro. Un anno dopo aprì una sua Galleria nel Ticinese.
“Spazio ‘70” suggerì Denis “si va verso il futuro”.
Bob montò in bicicletta, passò tra le Colonne di San Lorenzo e percorse via Torino maledicendo le rotaie del tram. Da piazza della Scala svoltò in via Verdi e si fermò davanti a una vetrina. Una stoffa bianca e nera con sorridenti mongolfiere drappeggiava una seggiola con lo schienale a forma di colonna dorica. A Bob piaceva lo humour d Fornasetti.
Superò l’Accademia scampanellando a Ugo che usciva da Crespi.
“Si lavora!” disse indicando la tela arrotolata.
“Perché non passi a vedere quel che sto combinando?”
Bob era diventato un gallerista corteggiato. Aveva spiazzato il sindaco a un’inaugurazione ufficiale, offrendogli un bicchiere di champagne sopra il catalogo della sua prima mostra.
“Passo la prossima settimana” rispose Bob.
Alle undici al Giamaica c’era Johnny.
“Non ti separi mai da quella lì?” disse Bob indicando la Leica che aveva al collo.
“Ho mollato tante fidanzate, questa mai", guardò nel mirino e gli scattò una foto.
“Che fine ha fatto Dennis, non si vede da un po’.”
Bob sollevò il bicchiere e osservò l’Aperol in trasparenza. Somigliava a un tramonto estivo.
Quando rimontò in bicicletta, Franco il calzolaio stava sulla porta del negozio con le mani nelle tasche del grembiule. Bob gli fece un cenno continuando a pedalare. Prima di svoltare in piazza Formentini, un intenso odore di urina gli entrò nelle narici. Nello era alla finestra del cineclub e fumava una sigaretta.
“Sali” urlò quando lo vide arrivare .
La scrivania di Nello era ingombra di cartoline belle-époque.
“Cosa stai facendo?”
“Devo scegliere l’immagine per la locandina del mese di maggio, dammi una mano.”
“Qual é il programma?”
“Film erotici d’inizio secolo, c’è n’è pure uno girato da Gabriele D’Annunzio”.
“Dove li hai scovati?”
“Un collezionista privato che ha bisogno di soldi”.
“Questa è perfetta, ha gli spazi per scrivere i titoli” disse Bob mentre toglieva una cartolina dal mucchio. Due donnine in braghette reggevano un acchiappafarfalle sulla  soglia di una cabina in riva al mare.
“A che punto è la trattativa per la chiesa?”
“Il sovrintendente ha confermato che se la rimettiamo a posto ce la cede in comodato. Devo darmi da fare per trovare delle sovvenzioni”.
“A voi socialisti le occasioni certo non mancano!” esclamò Bob.
“Non sfottere, anche tu hai fatto strada con i personaggi che ti ho presentato. A proposito, l’avvocato che colleziona Denis mi ha chiesto che fine ha fatto”.
“E’ al lavoro e in un momento felice. Una svolta  interessante .”
Bob si avvicinò alla finestra. Un camion scaricava mobili, al vespasiano d’angolo un tossico era impegnato col cucchiaino.
“Ma che schifo! Con l’acqua del pisciatoio!”
“Ti scandalizzi? Anche Denis…”
“No, Denis non si è mai bucato.”
“Guai a toccarti Denis, è uno stronzo e tu sempre pronto a difenderlo”.
Già pensò, e ricordò la Biennale del settantadue quando da invitati, sbarcarono a Venezia.
“Ehi sveglia, dammi una mano a buttar giù la locandina” chiese Nello porgendogli un foglio bianco.
Bob tolse dal taschino il rapido-graf, schizzò le bellezze al bagno sul lato destro e mise i titoli a sinistra.


La luce che scendeva dal lucernario  metteva in risalto il corpo massiccio di Denis che col gatto acciambellato ai piedi, il braccio piegato sopra gli occhi, dormiva sul divano arrotolato nella coperta scozzese.
Il forte odore di trementina rassicurò Bob quando entrò.
“Il genio dorme” disse ad alta voce. Mise il tappo al Johnny Walker, raccolse da terra tre bottiglie di birra, le buttò nel secchio insieme alle cicche delle sigarette e andò a svuotare tutto nella botola sul pianerottolo. Denis si stiracchiò .
“Ho lavorato tutta la notte” disse.
Bob si avvicinò al cavalletto. Il Rosso sfumava gradatamente verso l’arancione spalmato sulla tela con larghe spatolate.
“I colori sembrano urlare per uscire dai margini, mi piace”, disse Bob ma se ne andò presto. Non sopportava i risvegli stonati dell’amico.
Una settimana dopo passò  al Giamaica pensando di trovarlo ma non lo vedevano da un po’ e Bob cominciò a preoccuparsi. Andò allo studio, aprì col mazzo di chiavi che aveva in consegna. Tolse dalla poltrona la stecca di Marlboro e si mise seduto ad aspettarlo. Il quadro era sul cavalletto. Denis ci aveva lavorato ancora.
Nella parte alta del quadro il blu oltremare degradava in spatolate con aggiunta di bianco, al centro della tela erano stati inseriti dei quadratini di rame di rame .
Denis arrivò verso mezzanotte fischiettando: Ehi, Mambo.
“Dove ti eri cacciato?”
“Da un amico.” Denis si allungò sul divano scaraventando lontano le scarpe.
“Smettila con quella roba, vuoi fare la fine di Piero?”
“Magari” rispose Denis “la sua merda d’artista ha fatto il giro del mondo”. Si alzò, afferrò due tubi di colore Maimeri che schiacciò direttamente sulla tela formando prima una montagnola di giallo, poi una col rosso e mischiandoli ottenne un arancione luminoso in basso, a destra della tela; lo increspò con una spatola ottenendo l’effetto materico di un’onda. Stese delle linee blu sui rossi già asciutti, che incise con una spatola dentata. Capovolse il quadro e si allontanò dal cavalletto. “Comunque lo giri regge, non trovi?”
“Sì, ma lo preferisco orizzontale, con l’arancione a sinistra.” Rispose Bob
“Questo quadro non ha direzione, si può guardare da qualsiasi lato” e con un pennello sporco di arancione firmò sul retro: Lazzaro 1976.
“Con la firma hai dato il verso al quadro. Quando sarà asciutto lo porto all’avvocato, gliene ho parlato e vuole vederlo.”
“Veditela tu” prese una sigaretta dal pacchetto e la fece girare un po’ tra le labbra prima di accenderla.
“Sei un genio e ti stai distruggendo, perché?” Chiese Bob.
“Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere…
Bob gli impedì di finire la frase: “E smettila con Manzoni!”
Denis spense la cicca e la lanciò come una biglia senza centrare il secchio.


Un mese dopo al Giamaica festeggiavano la vendita.
“L’avvocato ha messo il quadro nella sala riunioni. Gli ho detto che poteva appenderlo per il verso che voleva. - Lo appenderò tenendo come riferimento la firma dell’artista - mi ha risposto. Vuole conoscerti, gli ho promesso che andremo a trovarlo.”
“Ho un gallerista perché non voglio avere a che fare con i collezionisti e tu vuoi presentarmene uno?”
“E’ simpatico e competente ti piacerà. Eh, su dai, ai cumenda cui danè piace circondarsi gli artisti”.
Lo studio dell’avvocato Gelmoni era in piazza Diaz. Bob spazientito aspettava sul portone. Vide Denis arrivare da via Mazzini e provò tenerezza per quell’omone che appoggiava i piedi storti quando camminava.
“Per favore non dire che la cornice è sbagliata e non fare commenti” disse Bob prima di scendere dall’ascensore.
“Mi stai chiedendo di non fare lo stronzo?”
“Appunto”.
L’avvocato mostrò con orgoglio la sua collezione lasciando per ultima la sala riunioni. Il quadro era appeso senza cornice al centro della parete.
“Per favore, si sieda come se tenesse un consiglio d’amministrazione” chiese Denis all’avvocato, che ridendo si mise seduto girando le spalle al quadro.
Denis dall’altro capo del tavolo osservò a lungo: si abbassò, si spostò a destra, poi a sinistra. Andò alla parete e lo capovolse.
“Appeso così è perfetto” esclamò Denis.
“Come disse Garibaldi: obbedisco! All’artista, s’intende. Il quadro rimarrà sempre appeso in quella posizione.” Rispose l’avvocato.
“E lo lasci nudo, la parete sarà la sua cornice.” Usciti dallo studio Bob e Denis si misero a ridere.
“Ho recitato bene la parte?”
“Ottima performance.”
“Tienilo d’occhio, Bob. L’arancione deve stare a sinistra”.
(continua)


Questo racconto partecipa  all'Eds arancione del grande cocomero come anche
e chissà quanti altri ancora


lunedì 11 novembre 2013

Lettera a un blog appena nato

È stato sullo stendere, quando i ranghi eran ridotti, che il lampo di genio ha illuminato gli avanzati.
Il dio della giornata si è espresso attraverso una delle figure antropomorfe stipate nell'ingresso e sferzate dallo sguardo birichino di un daniel defoe d'annata: l'inconsapevole cielo, forse proprio per una ragione affettiva che lega i cieli agli dei da sempre, forse perché ha trovato maggiore penetrabilità in una mente permeata dall'alcol, abruzzese, toscano o del nonno che sia stato.
E lì, in quella folle meraviglia che è la normalità, iddìo ha plasmato la zona laringea del buon cielo affinché descrivesse la nostra anfitriona con queste parole: un pezzo di Milano che cammina con gli occhiali.
Una folgorazione, un nome da registrare subito, e lo dico a te, Fulvia, non aspettare che vengano a saperlo una Vanoni o un Vecchioni qualsiasi e te lo freghino.
Pigliati 10 minuti e apri 'sto blog, poi lo puoi anche lasciare lì nelle lunghe giornate in cui non avrai voglia di scrivere né di rendere pubblico qualche granello della tua spiaggia di foto. Lo puoi lasciare lì, non gli devi manco riempire la ciotola coi croccantini.
Ieri, infilare il tunnel del tempo a Porta Genova e finire in una Milano anni 60 è stato un attimo. Tra binari morti stramorti, l'uscita che non si trova, il tram arancione e decadente, la vespa arrugginita che spernacchia, un caffè dall'improbabile insegna ancora una volta arancione e una bici dipinta a mano incatenata a un palo.
E poi l'androne, con l'eco tipica da androne, le terrazze, le ringhiere, i vasi, le scale all'aperto, i gatti e poi ancora terrazze e rampe e ringhiere e gatti morti sepolti nei vasi.
Un tuffo in una Milano sonnacchiosa e d'altri tempi dove puoi anche solo startene lì a nutrire la tua mente e il tuo stomaco in attesa che quel pezzo di Milano che cammina con gli occhiali, un po' stralunato e carinissimo, splendida conduttrice di una dimora tupperware free, ti illustri ancora con quelle pennellate lente, da macchiaiola naif, una scheggia, uno sprazzo, un fotogramma di vita e di città.
(da Hombre per l'amica effe)