mercoledì 13 novembre 2013

Il quadro capovolto



Quando verso sera al bar Giamaica di bicchieri se ne erano consumati tanti e le discussioni sulla pop art evaporate, l’argomento del gruppo scivolava sulle modelle del corso di nudo.
Roberto Rattazzo, rosso di capelli, era timido con le ragazze.
“Bob, cosa ci vuole?” gli diceva Denis “Guarda la tipa vestita di nero col rossetto bordò. Fatti sotto, le offri un caffè e le chiedi se puoi accompagnarla a casa”.
Bob rispose alzando le spalle.
Il giorno dopo la tipa era appoggiata al bancone e lo guardava.
“Posso offrire un caffè?”
La brunetta sorrise e rispose, perché no!
“Dove abiti? Ma è qui vicino, ti posso accompagnare?”
Lungo la strada Bob si fermò in pasticceria e comprò una scatola di cioccolatini.
In corso Garibaldi di fianco al cinema Fossati chiese:
“Posso salire ad assaggiare un cioccolatino?”
Due giorni dopo Bob entrò al Giamaica esultante.
Cominciò dal foulard sull’abat-jour, continuò col profumo di violetta nella stanza e la bottiglia col pon pon sul comodino, finì col catino di ceramica e il cesso sul ballatoio.
“E il soffitto della stanza era viola?” domandò Johnny Ricci, il fotografo.
“Lascialo in pace” borbottò Denis.
“E’ stata dolcissima” concluse Bob. Dal gruppo partì una gran risata. “…e dolcissimi anche i cioccolatini, li abbiamo finiti tutti noi ieri sera”.
“Stronzi!” urlò.
“Invece di ringraziarmi che ti ho pagato la prima scopata” disse Denis.
Dopo qualche giorno di vaffanculo, l’episodio cementò una lunga e tortuosa amicizia.


Denis era il migliore del gruppo, il più aggiornato, il più veloce col cervello, grande sperimentatore da quando era tornato da New York. Questo pensava Bob.
A sei anni disegnava sugli scatoloni che i suoi genitori tenevano nel retrobottega. A otto, la sua prima opera : una bottiglia di latte con la goccia che scivolava lungo il bordo. Nonostante la scritta Yomo che appariva in trasparenza, suo padre lo aveva incorniciato e appeso in latteria alle spalle della bilancia.
Il padre di Bob invece faceva l’antiquario. Aveva un negozio in via Caminadella e collezionava arte contemporanea. Aveva fiuto e teneva d’occhio il gruppetto di amici di suo figlio.
Terminata l’accademia e messa da parte la scultura, Bob affiancò suo padre nel lavoro. Un anno dopo aprì una sua Galleria nel Ticinese.
“Spazio ‘70” suggerì Denis “si va verso il futuro”.
Bob montò in bicicletta, passò tra le Colonne di San Lorenzo e percorse via Torino maledicendo le rotaie del tram. Da piazza della Scala svoltò in via Verdi e si fermò davanti a una vetrina. Una stoffa bianca e nera con sorridenti mongolfiere drappeggiava una seggiola con lo schienale a forma di colonna dorica. A Bob piaceva lo humour d Fornasetti.
Superò l’Accademia scampanellando a Ugo che usciva da Crespi.
“Si lavora!” disse indicando la tela arrotolata.
“Perché non passi a vedere quel che sto combinando?”
Bob era diventato un gallerista corteggiato. Aveva spiazzato il sindaco a un’inaugurazione ufficiale, offrendogli un bicchiere di champagne sopra il catalogo della sua prima mostra.
“Passo la prossima settimana” rispose Bob.
Alle undici al Giamaica c’era Johnny.
“Non ti separi mai da quella lì?” disse Bob indicando la Leica che aveva al collo.
“Ho mollato tante fidanzate, questa mai", guardò nel mirino e gli scattò una foto.
“Che fine ha fatto Dennis, non si vede da un po’.”
Bob sollevò il bicchiere e osservò l’Aperol in trasparenza. Somigliava a un tramonto estivo.
Quando rimontò in bicicletta, Franco il calzolaio stava sulla porta del negozio con le mani nelle tasche del grembiule. Bob gli fece un cenno continuando a pedalare. Prima di svoltare in piazza Formentini, un intenso odore di urina gli entrò nelle narici. Nello era alla finestra del cineclub e fumava una sigaretta.
“Sali” urlò quando lo vide arrivare .
La scrivania di Nello era ingombra di cartoline belle-époque.
“Cosa stai facendo?”
“Devo scegliere l’immagine per la locandina del mese di maggio, dammi una mano.”
“Qual é il programma?”
“Film erotici d’inizio secolo, c’è n’è pure uno girato da Gabriele D’Annunzio”.
“Dove li hai scovati?”
“Un collezionista privato che ha bisogno di soldi”.
“Questa è perfetta, ha gli spazi per scrivere i titoli” disse Bob mentre toglieva una cartolina dal mucchio. Due donnine in braghette reggevano un acchiappafarfalle sulla  soglia di una cabina in riva al mare.
“A che punto è la trattativa per la chiesa?”
“Il sovrintendente ha confermato che se la rimettiamo a posto ce la cede in comodato. Devo darmi da fare per trovare delle sovvenzioni”.
“A voi socialisti le occasioni certo non mancano!” esclamò Bob.
“Non sfottere, anche tu hai fatto strada con i personaggi che ti ho presentato. A proposito, l’avvocato che colleziona Denis mi ha chiesto che fine ha fatto”.
“E’ al lavoro e in un momento felice. Una svolta  interessante .”
Bob si avvicinò alla finestra. Un camion scaricava mobili, al vespasiano d’angolo un tossico era impegnato col cucchiaino.
“Ma che schifo! Con l’acqua del pisciatoio!”
“Ti scandalizzi? Anche Denis…”
“No, Denis non si è mai bucato.”
“Guai a toccarti Denis, è uno stronzo e tu sempre pronto a difenderlo”.
Già pensò, e ricordò la Biennale del settantadue quando da invitati, sbarcarono a Venezia.
“Ehi sveglia, dammi una mano a buttar giù la locandina” chiese Nello porgendogli un foglio bianco.
Bob tolse dal taschino il rapido-graf, schizzò le bellezze al bagno sul lato destro e mise i titoli a sinistra.


La luce che scendeva dal lucernario  metteva in risalto il corpo massiccio di Denis che col gatto acciambellato ai piedi, il braccio piegato sopra gli occhi, dormiva sul divano arrotolato nella coperta scozzese.
Il forte odore di trementina rassicurò Bob quando entrò.
“Il genio dorme” disse ad alta voce. Mise il tappo al Johnny Walker, raccolse da terra tre bottiglie di birra, le buttò nel secchio insieme alle cicche delle sigarette e andò a svuotare tutto nella botola sul pianerottolo. Denis si stiracchiò .
“Ho lavorato tutta la notte” disse.
Bob si avvicinò al cavalletto. Il Rosso sfumava gradatamente verso l’arancione spalmato sulla tela con larghe spatolate.
“I colori sembrano urlare per uscire dai margini, mi piace”, disse Bob ma se ne andò presto. Non sopportava i risvegli stonati dell’amico.
Una settimana dopo passò  al Giamaica pensando di trovarlo ma non lo vedevano da un po’ e Bob cominciò a preoccuparsi. Andò allo studio, aprì col mazzo di chiavi che aveva in consegna. Tolse dalla poltrona la stecca di Marlboro e si mise seduto ad aspettarlo. Il quadro era sul cavalletto. Denis ci aveva lavorato ancora.
Nella parte alta del quadro il blu oltremare degradava in spatolate con aggiunta di bianco, al centro della tela erano stati inseriti dei quadratini di rame di rame .
Denis arrivò verso mezzanotte fischiettando: Ehi, Mambo.
“Dove ti eri cacciato?”
“Da un amico.” Denis si allungò sul divano scaraventando lontano le scarpe.
“Smettila con quella roba, vuoi fare la fine di Piero?”
“Magari” rispose Denis “la sua merda d’artista ha fatto il giro del mondo”. Si alzò, afferrò due tubi di colore Maimeri che schiacciò direttamente sulla tela formando prima una montagnola di giallo, poi una col rosso e mischiandoli ottenne un arancione luminoso in basso, a destra della tela; lo increspò con una spatola ottenendo l’effetto materico di un’onda. Stese delle linee blu sui rossi già asciutti, che incise con una spatola dentata. Capovolse il quadro e si allontanò dal cavalletto. “Comunque lo giri regge, non trovi?”
“Sì, ma lo preferisco orizzontale, con l’arancione a sinistra.” Rispose Bob
“Questo quadro non ha direzione, si può guardare da qualsiasi lato” e con un pennello sporco di arancione firmò sul retro: Lazzaro 1976.
“Con la firma hai dato il verso al quadro. Quando sarà asciutto lo porto all’avvocato, gliene ho parlato e vuole vederlo.”
“Veditela tu” prese una sigaretta dal pacchetto e la fece girare un po’ tra le labbra prima di accenderla.
“Sei un genio e ti stai distruggendo, perché?” Chiese Bob.
“Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere…
Bob gli impedì di finire la frase: “E smettila con Manzoni!”
Denis spense la cicca e la lanciò come una biglia senza centrare il secchio.


Un mese dopo al Giamaica festeggiavano la vendita.
“L’avvocato ha messo il quadro nella sala riunioni. Gli ho detto che poteva appenderlo per il verso che voleva. - Lo appenderò tenendo come riferimento la firma dell’artista - mi ha risposto. Vuole conoscerti, gli ho promesso che andremo a trovarlo.”
“Ho un gallerista perché non voglio avere a che fare con i collezionisti e tu vuoi presentarmene uno?”
“E’ simpatico e competente ti piacerà. Eh, su dai, ai cumenda cui danè piace circondarsi gli artisti”.
Lo studio dell’avvocato Gelmoni era in piazza Diaz. Bob spazientito aspettava sul portone. Vide Denis arrivare da via Mazzini e provò tenerezza per quell’omone che appoggiava i piedi storti quando camminava.
“Per favore non dire che la cornice è sbagliata e non fare commenti” disse Bob prima di scendere dall’ascensore.
“Mi stai chiedendo di non fare lo stronzo?”
“Appunto”.
L’avvocato mostrò con orgoglio la sua collezione lasciando per ultima la sala riunioni. Il quadro era appeso senza cornice al centro della parete.
“Per favore, si sieda come se tenesse un consiglio d’amministrazione” chiese Denis all’avvocato, che ridendo si mise seduto girando le spalle al quadro.
Denis dall’altro capo del tavolo osservò a lungo: si abbassò, si spostò a destra, poi a sinistra. Andò alla parete e lo capovolse.
“Appeso così è perfetto” esclamò Denis.
“Come disse Garibaldi: obbedisco! All’artista, s’intende. Il quadro rimarrà sempre appeso in quella posizione.” Rispose l’avvocato.
“E lo lasci nudo, la parete sarà la sua cornice.” Usciti dallo studio Bob e Denis si misero a ridere.
“Ho recitato bene la parte?”
“Ottima performance.”
“Tienilo d’occhio, Bob. L’arancione deve stare a sinistra”.
(continua)


Questo racconto partecipa  all'Eds arancione del grande cocomero come anche
e chissà quanti altri ancora


lunedì 11 novembre 2013

Lettera a un blog appena nato

È stato sullo stendere, quando i ranghi eran ridotti, che il lampo di genio ha illuminato gli avanzati.
Il dio della giornata si è espresso attraverso una delle figure antropomorfe stipate nell'ingresso e sferzate dallo sguardo birichino di un daniel defoe d'annata: l'inconsapevole cielo, forse proprio per una ragione affettiva che lega i cieli agli dei da sempre, forse perché ha trovato maggiore penetrabilità in una mente permeata dall'alcol, abruzzese, toscano o del nonno che sia stato.
E lì, in quella folle meraviglia che è la normalità, iddìo ha plasmato la zona laringea del buon cielo affinché descrivesse la nostra anfitriona con queste parole: un pezzo di Milano che cammina con gli occhiali.
Una folgorazione, un nome da registrare subito, e lo dico a te, Fulvia, non aspettare che vengano a saperlo una Vanoni o un Vecchioni qualsiasi e te lo freghino.
Pigliati 10 minuti e apri 'sto blog, poi lo puoi anche lasciare lì nelle lunghe giornate in cui non avrai voglia di scrivere né di rendere pubblico qualche granello della tua spiaggia di foto. Lo puoi lasciare lì, non gli devi manco riempire la ciotola coi croccantini.
Ieri, infilare il tunnel del tempo a Porta Genova e finire in una Milano anni 60 è stato un attimo. Tra binari morti stramorti, l'uscita che non si trova, il tram arancione e decadente, la vespa arrugginita che spernacchia, un caffè dall'improbabile insegna ancora una volta arancione e una bici dipinta a mano incatenata a un palo.
E poi l'androne, con l'eco tipica da androne, le terrazze, le ringhiere, i vasi, le scale all'aperto, i gatti e poi ancora terrazze e rampe e ringhiere e gatti morti sepolti nei vasi.
Un tuffo in una Milano sonnacchiosa e d'altri tempi dove puoi anche solo startene lì a nutrire la tua mente e il tuo stomaco in attesa che quel pezzo di Milano che cammina con gli occhiali, un po' stralunato e carinissimo, splendida conduttrice di una dimora tupperware free, ti illustri ancora con quelle pennellate lente, da macchiaiola naif, una scheggia, uno sprazzo, un fotogramma di vita e di città.
(da Hombre per l'amica effe)